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Intervista a Massimo Baldacci

Dal DOSSIER SCUOLA

Massimo Baldacci è Professore ordinario di pedagogia generale presso l’Università di Urbino dal 2000, è stato Presidente della Siped-Società italiana di pedagogia. Tra le sue ultime pubblicazioni: Per un’idea di scuola. Istruzione, lavoro e democrazia (FrancoAngeli, 2014); Oltre la subalternità. Praxis e educazione in Gramsci (Carocci, 2017); La scuola al bivio. Mercato o democrazia? (FrancoAngeli 2019). Dirige la rivista Pedagogia più Didattica (Erickson). Coordina il Gruppo di pedagogia teorica della Siped.

Nei suoi libri e nelle sue conferenze ha parlato spesso di “scuola della Costituzione”. Cosa intende e quanta parte di questa scuola è stata realizzata nella storia della Repubblica?

In generale, con l’espressione “scuola della Costituzione” intendo una scuola ispirata ai valori democratici inscritti nella Carta costituzionale del nostro Paese. In modo più preciso penso agli articoli 3, 33 e 34. Nel loro insieme, tali articoli configurano un diritto soggettivo all’istruzione, che richiede la realizzazione di un Sistema scolastico atto a garantire il pieno sviluppo della persona, e delle capacità di partecipazione alla vita sociale come cittadino e come lavoratore. Nella storia della Repubblica, l’impegno per la realizzazione di una scuola della Costituzione è iniziato solo con la seconda metà degli anni Cinquanta, e ha iniziato a indebolirsi durante gli anni Ottanta, quando le preoccupazioni per la competitività economica nel mercato globale hanno preso il sopravvento sulle istanze della democratizzazione della scuola. Il trentennio riformista ha però portato conquiste importanti: dalla scuola media unificata, alla scuola d’infanzia statale, all’integrazione dei soggetti disabili ecc.

Quale visione alternativa si è affermata o si sta affermando, al posto della “scuola della Costituzione”?

La grande ristrutturazione economica mondiale iniziata alla fine degli anni Settanta, e che dopo la fine del bipolarismo ha portato a un mercato globale, ha prodotto una pressione inedita sui sistemi scolastici. In primo luogo, le filosofie dell’istruzione si sono conformate alla teoria del capitale umano, che assegna alla scuola il compito di formare le competenze utilizzabili nei processi produttivi, assicurandone cos. la competitività. La formazione del produttore è così diventata prioritaria rispetto alla formazione del cittadino. In secondo luogo, le dottrine neoliberiste hanno identificato nella competizione il motore dell’efficienza e della produttività, estendendo questa logica anche alla scuola. In questo quadro, gli istituti scolastici sono visti come aziende che competono tra loro per realizzare prestazioni più elevate ed assicurarsi così iscrizioni e premialità erogate dal sistema di governo. In seguito a ciò, l’idea della scuola come comunità democratica finalizzata alla crescita umana dei giovani è entrata in un cono d’ombra.

In quale quadro si inseriscono le riforme Berlinguer e Moratti? Quale scuola sta emergendo da tali riforme e quali spazi esistono per cambiare rotta?

Le riforme Berlinguer e Moratti appartengono a due fasi diverse della trasformazione della scuola. Nella stagione di Berlinguer era in atto la ricerca di un compromesso tra le concezioni neoliberiste che accompagnavano i cambiamenti socioeconomici e le concezioni socialdemocratiche che avevano ispirato la fase precedente. Della ricerca di tale compromesso era espressione anche il Rapporto Delors all’Unesco sull’educazione per il XXI secolo, del 1996. Nella stagione Moratti il piano era ormai inclinato verso le soluzioni neoliberiste. La scuola delle tre I (impresa, inglese, internet) e Le indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati rappresentavano un passo deciso in questa direzione. Nel modello neoliberista, la scuola rappresenta una sorta di fabbrica di capitale umano e una palestra di competizione: si tratta di formare produttori competenti e competitivi. Tuttavia, questa logica – sebbene oggi egemone – non è mai arrivata a realizzare una completa conformazione della scuola. Pertanto, il cambiamento è ancora possibile.

Il titolo di un Suo recente libro è “La scuola al bivio – Mercato o Democrazia”. Quali sono le ragioni del mercato che non deve dimenticare la scuola della democrazia?

Credo che nelle sue linee fondamentali la questione sia semplice. La scuola ha il compito di promuovere il pieno sviluppo intellettuale ed etico-sociale delle nuove generazioni, perciò ne deve curare la formazione come esseri umani completi. Questo implica che i giovani debbono essere formati sia come cittadini, sia come lavoratori, sia come uomini e donne capaci pensare con la propria testa e di essere perciò padroni della propria vita. I problemi derivano da soluzioni unilaterali che tendono a compromettere questa completezza. Pertanto, è criticabile la scuola neoliberista che riduce la formazione dei giovani alla loro preparazione come produttori. Tuttavia, è criticabile anche una scuola che si trincera dietro la pretesa di una cultura totalmente disinteressata e avulsa dalla realtà sociale, finendo per celebrare un sapere puramente formale e aristocratico. La scuola non deve essere immediatamente finalizzata al lavoro, ma indirettamente deve preparare anche al lavoro, garantendo la solidità culturale della formazione.

La scuola di oggi ci sembra in difficoltà a svolgere il compito di educare allo spirito critico. Perché, a suo avviso?

Probabilmente congiurano più fattori. In primo luogo, una concezione della scuola che mette l’accento sempre di più sul saper fare sollecita meno i docenti ad occuparsi del saper pensare. In secondo luogo, la scuola è soggetta a una valutazione istituzionale delle competenze (per esempio, le rilevazioni dell’Invalsi). Se si valuta qualcuno su un certo aspetto, c’è da aspettarsi che l’attenzione da egli dedicata ad aspetti differenti tenda a scemare. Lo sviluppo dello spirito critico non può essere controllato con prove formali e test di profitto, per cui non viene incluso nel concetto di produttività della scuola (che si pretende misurabile). E questo può Portare a una minore attenzione da parte dei docenti, al di là degli apprezzamenti di circostanza. Infine, non è da escludere che influiscano anche costumi intellettuali socialmente diffusi: la nostra è l’epoca del pensiero sbrigativo ed estemporaneo. Il pensiero critico, invece, richiede tempo e sistematicità. I giovani non fruiscono di molti esempi di esercizio critico, per cui non ci dobbiamo aspettare che abbiano una spontanea inclinazione verso di esso.

Nel dibattito competenze versus conoscenze qual è la sua posizione?

Mi pare discutibile l’attuale polarizzazione del dibattito tra sostenitori di un approccio per conoscenze e quelli di un approccio per competenze. Nel curricolo scolastico vi deve essere spazio per le conoscenze, per le competenze e per il pensiero critico. Per altro mi sembra che spesso vi siano malintesi di fondo. La competenza non è un semplice saper fare (sarebbe allora soltanto un’abilità meccanica), ma consiste nella capacità di usare in modo intelligente le proprie conoscenze. Parallelamente, non mi pare vero che la scuola delle conoscenze trascuri completamente il loro uso. Una versione dal latino, per esempio, non richiede soltanto conoscenze, ma competenze. Ogni sapere disciplinare implica conoscenze, competenze e forme di pensiero. La formazione scolastica deve curare sia il sapere, sia il saper fare, sia il saper pensare, e deve anche coltivare la loro connessione. Il dibattito è stato inquinato dal legame tra il concetto di competenza e quello di capitale umano. Sarebbe errato credere che il valore delle competenze dipenda solo da questo legame.

Uno dei maggiori problemi della scuola italiana è l’abbandono scolastico, cui si unisce il dramma dei “NEET” (Not in Education, Employment or Training); come si può rimediare? a questo enorme problema risponde meglio la scuola della costituzione o il modello di scuola aziendale?

Si tratta di un problema che acquista un differente significato nei due modelli. Per una scuola della Costituzione l’abbandono dipende da ostacoli che hanno origine dalle diseguaglianze sociali, e quindi rappresenta un’ingiustizia e un fallimento rispetto al compito di rimuovere tali ostacoli (art. 3). La responsabilità di evitare tale esito è quindi della scuola. I tentativi di affrontare il problema della selezione scolastica hanno ottenuto risultati importanti, ma non sono stati risolutivi. Per il modello aziendale, la cosiddetta dispersione è vista essenzialmente come un fenomeno che indebolisce il capitale umano del Paese. E quindi si tratta di un problema da non trascurare. Il principio della scuola neoliberista è però di tipo meritocratico: ognuno ha quello che si merita in base alle sue capacità e al suo impegno. Quindi, in ultima analisi, la responsabilità tende a ricadere sullo scolaro e/o sulla sua famiglia. Le preoccupazioni vanno più verso la promozione delle eccellenze, che verso il recupero degli svantaggiati.

Chi sono oggi, gli insegnanti italiani?

La risposta dovrebbe riguardare innanzitutto la composizione sociale del corpo insegnante, oggi in parte mutata rispetto alla tradizionale estrazione piccolo borghese. Ma questa è materia per la sociologia dell’educazione. Dal punto di vista pedagogico, si devono piuttosto considerare i modelli di identificazione proposti ai docenti. La figura dell’insegnante tradizionale era quella di una sorta di sacerdote del tempio della cultura (si veda Gentile), il cui spettro si aggira ancora negli immaginari dei nostalgici. La scuola della Costituzione ha promosso l’idea dell’insegnante come intellettuale democratico, che opera per l’emancipazione intellettuale e morale degli scolari. La scuola neoliberista, invece, si basa su una visione tecnocratica: il docente come funzionario della formazione delle competenze e del loro controllo docimologico. Quest’ultimo è oggi il modello di identificazione predominante, ma gli altri due non sono scomparsi. E negli insegnanti, questo favorisce l’incertezza circa la propria identità professionale.

L’importanza acquisita dalla scienza e dalla matematica nella nostra società si riflette in un giusto ruolo dato alle discipline scientifiche nella scuola?

Credo che per il nostro Paese vi siano dei problemi a questo proposito. La cultura neoidealista che ha dominato la prima metà del Novecento aveva creato pregiudizi sfavorevoli verso la matematica e le scienze. E tali pregiudizi hanno ritardato un’adeguata attenzione formativa verso questi saperi. A questo si è aggiunta una concezione riduttiva dell’insegnamento scientifico, spesso imprigionato nella dimensione d’aula, con un uso solo residuale del laboratorio. L’importanza assunta oggi dalle scienze e dalla matematica nella società, impongono senza dubbio un ripensamento. Questa importanza è però legata anche alla loro funzione nelle tecnologie avanzate della produzione. Vi è perciò il rischio che il riconoscimento di un loro maggiore ruolo scolastico sia visto esclusivamente in rapporto alla formazione di capitale umano. Credo che sia necessario un ruolo più ampio, una diffusione delle matematiche e delle scienze in quanto cultura in grado di promuovere un atteggiamento scientifico, che è parte integrante del pensiero critico.

A tutti gli intervistati abbiamo lasciato un’ultima domanda aperta: in chiusura di intervista vuole aggiungere qualche riflessione ulteriore?

Concludo dicendo che per evitare che la deriva verso il modello neoliberista della scuola diventi inarrestabile è necessario tenere vivo il fuoco della discussione. Il neoliberismo, anche per quanto riguarda la scuola, ha la pretesa di presentarsi come pensiero unico. Privo di alternative plausibili. Ma per affermare la propria egemonia culturale deve convincere gli insegnanti. Molti di questi, però, non sono persuasi della bontà della sua versione delle cose. Ne vogliono discutere. E fino a che se ne discuterà la questione resterà aperta.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti.

L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale. Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.

La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

Potete scaricare il Dossier scuola ed il numero completo gratuitamente dal sito della UniPaPress: Nuova Lettera Matematica. Numero 3.

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